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Quest’estate abbiamo dedicato un lungo speciale a Santarcangelo 13, il festival internazionale di teatro in piazza. Chiudiamo il cerchio con un’intervista di Maurizio Braucci a Rodolfo Sacchettini, co-direttore del festival. (Foto: Ilaria Scarpa.)
di Maurizio Braucci
Luglio. A Santarcangelo di Romagna, al caffè Commercio, intervisto Rodolfo Sacchettini, critico teatrale e direttore artistico dell’edizione 2013 del festival. È una chiacchierata improvvisata con cui cerco di mettere un po’ a fuoco cosa sta accadendo oggi nel teatro italiano di ricerca.
Come collochi Santarcangelo nel panorama dei festival di teatro in Italia?
In Italia il festival di Santarcangelo è il più antico tra i festival del cosiddetto teatro di ricerca. Nasce nel 1971 e ha attraversato tante fasi, rimanendo un punto di riferimento per la comunità teatrale. A differenza di altre situazioni è un festival che cambia periodicamente direzione artistica. Ha un’identità forte che proviene dalla sua storia. Negli ultimi anni il numero di festival è proliferato in maniera impressionante, in tutti gli ambiti. La stessa parola “festival” è sempre più imbarazzante, perché associata a qualunque cosa. Per quanto riguarda il teatro sono nate molte rassegne e molti festival negli ultimi anni, spesso promossi da compagnie teatrali, e non di rado ben fatti, seppur realizzati con pochissime risorse.
Per Santarcangelo insieme a Silvia Bottiroli, direttrice artistica, abbiamo riflettuto ancora una volta sulla sua “diversità”, così come è stato fatto anche dalle tre compagnie che ci hanno preceduto nel triennio scorso (Socìetas, Motus, Teatro delle Albe). Innanzitutto se Santarcangelo è un “festival”, ci piace ricondurlo il più possibile a un senso autentico di festa, con tutta l’intensificazione e la vitalità che questa parola si porta dietro, antropologicamente parlando. Santarcangelo è un festival in cui si dispiega un orizzonte teatrale. Si va a Santarcangelo per seguire il festival, non per forza a vedere uno spettacolo in particolare. A differenza di tante altre situazioni a Santarcangelo si valuta sempre prima di tutto il “clima”, che non è la sua festosità chiassosa, al contrario è un po’ un informale sentore dello “stato dell’arte”: annusare cosa sta accadendo, cosa si muove, che aria si respira… È un termometro importante della complessità in cui le opere si manifestano. Ed è molto difficile lavorare perché questo luogo continui a essere espressione di una complessità anziché di una tendenza o di un gusto, mai rigida, mai monotematica, mai ripetitiva. Si lavora molto su ciò che non si conosce, sullo “straniero”, l’alterità in tutti i sensi, perché a Santarcangelo si va anche per scoprire cose nuove. Si cerca di lavorare molto sulle intersezioni, sugli incontri, sulla presenza attiva degli artisti, su un’accelerazione del ritmo, su un respiro che sia internazionale con scelte compiute dopo approfondito lavoro di esplorazione, e non in base ai nomi più facili, più noti.
I dieci giorni del festival catalizzano le energie, c’è un vero processo di trasformazione, a partire dai tanti giovanissimi che partecipano come volontari e stagisti, e che spesso attraversano il festival come un rito di iniziazione. In fin dei conti il Festival di Santarcangelo è stato da sempre il “luogo degli inizi”, delle “nascite”. Non si tratta, credo, solo di trovarvi o non trovarvi il grande e solido spettacolo di grandi e solidi artisti italiani o europei, come è stato recentemente scritto. O il disegno più o meno marcato di un tema. La “riconoscibilità” è un grande problema di questi tempi; lavoriamo in direzione opposta, non per il gusto delle stranezze, ma perché la complessità ci spinge a soluzioni non scontate, non schematiche. Si sbaglia, ma non per rassicurarci.
A parte la scarsità delle risorse, che comunque è un tema reale con cui fare drammaticamente i conti, il valore di questo fragile e forte tentativo è ancora quello di non cedere alle logiche di traiettorie culturali già scritte e peggio ancora a modalità di consumo maggioritarie.
Chi viene a Santarcangelo si mette in gioco e in ascolto pienamente, lo fa chi disegna il festival e lo fanno gli artisti – i “grandi” e i “piccoli”, i più noti e i meno noti – e chiediamo allo stesso modo anche allo spettatore, e a noi stessi divenutispettatori, di mettersi ancora in ascolto, di guardarsi attorno, di aprirsi, di essere curiosi, desiderosi, magari stupiti, spaesati, inappagati. Proviamo per dieci giorni con tutte le nostre forze a costruire un piccolo mondo, vivo e come la vita anche difforme, e ci occupiamo con lo stesso furore di tutto quanto, dall’accoglienza degli ospiti all’impatto ambientale.
L’anno scorso abbiamo lavorato con Virgilio Sieni producendo uno spettacolo con non professionisti all’interno della Scuola Elementare. Un’immagine di quello spettacolo è divenuta il manifesto della Biennale Danza. Sieni è tornato anche quest’anno e ha proposto il progetto Cerbiatti del nostro futuro, in un’edizione che guardava al mondo dell’infanzia in maniera molteplice. Una presenza fondamentale. E da molti anni mancava al festival. In questa edizione abbiamo voluto mettere un accento sul lavoro straordinario di Danio Manfredini, che anche lui mancava a Santarcangelo da molti anni. Ha presentato il suo concerto e una lettura strepitosa realizzata appositamente per il festival nella piazza centrale. Non è mai stato facile lavorare nella piazza, perché è una situazione che rischia di essere un po’ caotica, ma è uno spazio molto importante per il festival, su cui si sta lavorando dall’anno scorso. L’incontro tra pubblico e scena là, quando avviene, diventa qualcosa di miracoloso. Si generano un’attenzione e una capacità di ascolto inaspettati che trasmettono molta energia ai lavori. È naturalmente una sfida per nulla facile, ma dare alla piazza una programmazione “facile”, più di intrattenimento, sarebbe una scelta di comodo, e rinunciare alla piazza e fuggire negli spazi al chiuso sarebbe non accogliere una sfida che a Santarcangelo è cruciale e riguarda “un’utopica” occupazione della città da parte dell’arte. E’il tentativo di creare momenti aperti e larghi di incontro con esperienze “alte”. A volte riesce a volte no. E anche questo è nella natura impervia e rischiosa del festival.
Il tema della pedagogia è sempre più presente nelle ultime edizioni del festival. Parliamo di un tema labile da definire, in quanto il teatro e l’arte sono di per sé forme di pedagogia. Ad ogni modo, qui è cresciuta molto l’offerta di spettacoli che ragionano sull’aspetto educativo o sono destinati ai minori.
Quest’anno anche nella programmazione abbiamo voluto mettere degli accenti, e tra i centri del festival, per un festival volutamente policentrico,oltre alle nuove forme della coreografia, sicuramente un ruolo decisivo è stato interpretato dal binomio fondativo “teatro e infanzia”. Il rapporto con i bambini è naturalmente fondamentale. Sappiamo oggi che proprio sull’infanzia c’è una speculazione enorme, uno dei pochi mercati non ancora in crisi. Per quanto riguarda il festival si trattava di voler riproporre attraverso le voci di alcuni artisti una questione che è fondamentale da sempre, ma che lo è oggi in maniera molto particolare. Ci siamo messi soprattutto per mesi in ascolto e solo in seconda battuta abbiamo cercato di stimolare e indicare certe direzioni.
Di base c’è la consapevolezza che il teatro di questi ultimissimi confusi e deboli anni stia attraversando in pieno la crisi generale, che è crisi soprattutto di invenzione critica. Non è un problema di forme o di talenti, ma di miniaturizzazione del pensiero critico che è elemento fondamentale anche dentro l’opera d’arte. Se il pensiero “critico”in generale fatica a trovare una sua radicalità e una sua lucidità questo ha immediati riscontri anche nel fare artistico. La confusione è ovunque, in chi guarda e in chi agisce. Ma è un momento di grande interesse, perché in atto, a livello potremmo dire globale, ci sono tanti cambiamenti che riguardano la scena, e far finta di nulla sarebbe un errore madornale. È il momento credo di andare a fondo e capire meglio cosa sta succedendo. Anche perché la situazione è molto complessa e – detto sinceramente – nessuno ci capisce più nulla, o quasi. Lavorando spesso “dentro” il teatro, dovendo fare delle scelte di programmazione, è qualcosa di cui ci siamo accorti da alcuni anni.
Oggi iniziano a dirlo in tanti, ma lo si dice come se il giocatolo si fosse rotto all’improvviso. E con la paura di non saperne più che fare. Lo si vede molto bene nei resoconti critici e nel successo o meno di alcuni gruppi. Si naviga a vista, le contraddizioni sono dietro l’angolo, perché la coerenza è dettata per lo più da gusti personali, spesso assai discutibili e poco interessanti. È difficilissimo proporre un discorso critico serio e fecondo. È curioso ad esempio che l’edizione di quest’anno abbia ricevuto critiche completamente opposte: una parte dice che è un festival troppo monotematico un’altra parte dice che è un festival che contempla troppe diversità. C’è una difficoltà comprensibile e crescente a “leggere” le cose, prima ancora che a giudicarle. Quando si fa uno sforzo di teoria si entra invece in ortodossie piuttosto chiuse, settarie e incapaci di porosità.
Se dovessi in una parola sintetizzare quest’orizzonte direi che la sensazione predominante è il disorientamento. E forse bisognerebbe interrogarsi ancora su questo sentimento così diffuso. E da questo, in un certo senso, siamo partiti. Dal disorientamento – anche il nostro – e dunque dall’ascolto. Lavorare in tre (Bottiroli, Matthieu Goeurye io) è stato un tentativo innanzitutto di tenere una varietà di sguardi, di offrire strade molteplici e di avere un orizzonte il più possibile internazionale. Credo che in questo momento storico nella creazione di un festival si debba avere il coraggio di “aprire” a percorsi nuovi, considerare la diversità un valore e avere uno sguardo che contempli l’attesa, che osservi e crei le condizioni per delle nascite, che si interroghi sul groviglio, che provi a creare incroci fecondi. Fare un passo indietro. Mettersi in ascolto, cercar di capire quali sono le direzioni più vitali, indicare, se necessario, alcune strade. Lavorare “in positivo”, perché fare un festival significa pur sempre costruire qualcosa, non distruggere.
Quest’anno, come ti dicevo, ci siamo accorti rapidamente che diversi gruppi in maniera non casuale stavano ponendosi domande simili, e con linguaggi assai diversi molti di loro guardavano all’infanzia. “Teatro” e “infanzia” sono naturalmente legati in profondità. Antropologicamente collegati, come è stato detto a più riprese. Non si trattava tanto di fare un punto sul teatro ragazzi – non è Santarcangelo il luogo adatto per un’operazione del genere credo – ma di intercettare in maniera più ampia percorsi che si mettono in dialogo anche trasversale con questo archetipo e capire come e perché. In senso stretto l’unico spettacolo per bambini è “Pop up” di I Sacchi di Sabbia/Teatro delle Briciole, compagnia presente al festival con più lavori.
È stato un tentativo e forse per certi versi un modo ancora una volta di guardare a qualcosa che nasce. Può essere un inizio rivolgersi al mondo dell’infanzia, mettersi a confronto con il futuro, con quelli che verranno dopo? Allo spettatore sicuramente saranno venute in mente molte e varie domande guardando la riflessione sulla teleducazione di Discorso Giallo di Fanny & Alexander, il piccolo Amleto di Be Lengend! di Teatro Sotterraneo, le ragazzine e il ragazzino sulla scena di Virgilio Sieni, il gruppetto di bambini di Terry di Pathosformel o ancora gli adolescenti del Teatro delle Albe con il loro Pinocchio. L’infanzia è stata tematizza o coinvolta sulla scena o addirittura divenuta protagonista. Trovo che questo tipo di incontro, che ha alcuni caratteri di novità, sia in fin dei conti un modo per rimettersi in moto e provare a guardare al futuro, cercando di non lasciarsi ricattare dal presente o dal passato.
Oltre a tutto questo, ho curato quest’anno in maniera specifica il progetto “Radio e infanzia”: una stanza d’ascolto e opere commissionate appositamente per questa edizione. È una riflessione sulla radio, su quando ha incontrato il mondo dell’infanzia, su quando si è posta un problema anche educativo e su come oggi si può rivitalizzare l’arte dell’ascolto. Fanny & Alexander con Giallo. Radiodramma dal vivo ha costruito una drammaturgia realizzata tramite la voce di bambini raccolta durante diversi laboratori che ricrea alcune interessanti situazioni esperienziali e pedagogiche. A Marco Cavalcoli e Roberto Magnani ho chiesto di realizzare delle “conferenze radiofoniche per bambini”, leggendo testi, il primo, di Walter Benjamin e il secondo di Janusz Korczak. I testi di Benjamin sono piuttosto noti, ma non sono di solito affrontati veramente per quello che sono, cioè testi di trasmissioni radiofoniche pensate per ragazzini. Quelli di Janusz Korczak, inediti in Italia, colpiscono per la vivacità e anche per una scrittura che riprende l’oralità. Uno stile molto moderno, capace di incantare i bambini all’ascolto. Per aver scoperto i testi radiofonici di Korczak devo ringraziare il bellissimo film di Andrzej Wajda che nelle prime scene mostra il pedagogo polacco durante una sua trasmissione. Abbiamo concluso con Carmelo Bene e il suo straordinario Pinocchio radiofonico, presentato da Piergiorgio Giacchè.
Dopo la pedagogia, la politica. Quanto sta agendo o non sta agendo la situazione economica e politica del Paese sulla poetica delle opere teatrali?
È una domanda difficile e molto ampia. Da un certo punto di vista il teatro reagisce, come le altre arti, realizzando opere che denunciano la crisi e la disastrosa situazione politica. Ma il problema vero è sempre trovare un “linguaggio”, una forma all’altezza. Quando si inizia a parlare di “teatro politico” come di un genere ci si trova sempre in un vicolo cieco. Le para-ideologie, i sensi di colpa di una certa sinistra non aiutano a comprendere il valore “politico” di certe opere. Diciamo che su questo aspetto è difficile avere le idee chiare. Però si può dire che il teatro ha un’incredibile porosità. È forse l’arte più antica di tutte ed è certo quella che, in maniera anche inconsapevole, si fa intossicare di più dalla realtà. In questo momento il teatro è in una fase di assorbimento. La funzione critica si è in molti casi assottigliata. Anche i percorsi più radicali sembrano faticare a trovare modi nuovi per stare dentro e fuori da questi tempi complessi.
Nel teatro poi la dipendenza dalla politica è fortissima. Pensa anche a un gruppo giovane, alle prime armi, in qualunque paese italiano. Abbastanza presto, anche solo per trovare uno spazio per far le prove o far spettacolo, si trova a dialogare con l’amministrazione del proprio comune. Subito, appena nato, devi fare i conti con l’istituzione. Più vai avanti e più che le poche risorse a disposizione ti impongono un rapporto stretto con la politica. La politica,intesa come progettualità sul futuro e buon governo del presente, è una dimensione spesso insufficiente, latitante o quasi del tutto assente; invece è presentissima nelle forme burocratiche di controllo, di consenso, di logiche territoriali. Naturalmente ci sono eccezioni, ma sono errori di sistema, buone pratiche che fioriscono nei momenti di disordine o minoranze attive e ostinate. Ma nel complesso non è una situazione certo sana.
Ci stiamo confrontando con tante energie nuove e straordinarie, ma il clima generale è pessimo, con un grado di violenza e di aggressività sempre crescenti e una scarsità di risorse che per adesso non permette molti margini di manovra, perché il sistema è bloccato e fissato su degli equilibri ormai vecchissimi. I finanziamenti sono sempre meno, l’anno prossimo con l’abolizione delle Province arriveranno colpi durissimi. Si inizia a chiudere, perché a cedere sono le fondamenta. È tutto un sistema che comincia a scricchiolare seriamente, i grandi e i piccoli. D’altronde è tutto fermo da anni, mentre la società sta cambiando a gran velocità, energie nuove crescono e già invecchiano, eppure sembra che questa cappa di immobilità non lasci scampo, che trionfi uno sguardo senile e protezionistico. Sembra non sia possibile concepire spazio ai tentativi, agli errori, ai rischi, fuori dalle strade e dai solchi segnati. Per il teatro il problema economico è reale e rispecchia le sue debolezze culturali.
Poi c’è una questione più ampia che è scoppiata negli ultimi anni in maniera eclatante e soprattutto nel nostro paese. Una questione tesa tra i poli di finzione e realtà, di menzogna e televisione. Potremmo considerarla la grande mutazione di questo paese. Una questione che viene fuori molto chiaramente da alcuni film come “Reality” di Garrone, appunto. C’è una dimensione televisiva e spettacolare che ha invaso la vita quotidiana, la finzione sta colonizzando i nodi relazionali e sociali. Quando si va a teatro spesso si ha la sensazione che il virus della finzione abbia bloccato tutto. La televisione ha trionfato, le recitazioni sono da fiction e la lingua che si parla è sonoramente fastidiosissima. Spesso non si riescono a capire le parole o a seguire il filo narrativo. È difficilissimo trovare lavori che sappiano mettere al centro il valore profondo della parola, testi che sappiamo dire delle cose importanti.
Riguardo al modo di “raccontare” oggi ci sono dei linguaggi ibridi, che ereditano naturalmente la tradizione del nuovo teatro ma che sempre di più mescolano le carte lambendo altri confini. La ricerca teatrale fino ai primi anni duemila ha dato vita a momenti piuttosto straordinari e innovativi, in anticipo anche su affermati artisti europei. Oggi la situazione da un certo punto di vista ha perso quel tipo di radicalità e tende a evaporare, a disperdere le tracce. È un momento di grande confusione in cui la performatività diffusa sembra cancellare e azzerare i percorsi. Eppure in questo gran turbinio di proposte si vedono cose anche interessanti e curiose, soprattutto nei processi creativi. Molte realtà si spingono chiaramente su un campo sociologico. Ci sarebbe il desiderio di uscire dalle sale prove e confrontarsi con il mondo circostante con strumenti molto vari che passano dal video a forme di scritture collettive o di para-inchiesta a momenti di vita condivisa, a coreografie, intese quasi come forme di conoscenza per catturare i gesti e i movimenti della vita. Sono cose che si vedono in giro per l’Europa, ma che sono emerse in modo sottile anche nell’ultimo Premio Scenario.
A cosa porteranno è difficile dire, ma credo sia necessario adesso mettersi in ascolto e re-imparare a “leggere”. Poi naturalmente giudicare, chi se la sente, e soprattutto chi ha gli strumenti per distaccarsi dal semplice opinionismo o dalla chiacchiera o dalle recriminazioni. Ma ciò che viene fuori in maniera eclatante in questi ultimi anni è una sorta di “analfabetismo” diffuso. Ci sono stati esempi incredibili, uno su tutti per capirci, lo spettacolo di Romeo Castellucci sul volto di Gesù. Al di là del bello o del brutto, lo spettacolo in cui si esprime in maniera quasi “didattica” un atteggiamento religioso è stato paradossalmente considerato il più blasfemo!
Va bene la ricerca, ma non c’è stata negli ultimi anni una battaglia un po’ corporativa del teatro per le sue particolari difficoltà economiche e politiche? Mentre una situazione generale va allo sbando ci si potrebbe aspettare dal teatro, oltre ai lavoratori dello spettacolo, anche un atteggiamento più artistico o più sociale sulle difficoltà del nostro tempo. Magari è meglio quello che artisti come Virgilio Sieni o Danio Manfredini continuano a fare e che sembra non avere nessun rapporto con la politica del reale e invece a volte ha cose da dire sul presente.
Per fortuna ci sono artisti che resistono con grande ostinazione e portandoci delle esperienze “verticali”, non per questo distaccate dalla realtà di oggi, anzi assolutamente dentro i tempi che viviamo. Il caso di Virgilio Sieni è in questo senso eclatante. Naturalmente l’atteggiamento che gli si crea attorno è a volte pure un po’ fastidioso, perché si crea una sorta di funzione rassicurante, una corsa alla celebrazione, come se Sieni fosse nato oggi. Mentre il lavoro di Sieni, così come quello di Manfredini vanno interrogati, perché sono loro stessi ad interrogarci, e hanno da dirci molte cose. Nel disorientamento collettivo diventa importante avere punti di riferimento, ma credo che sia importante anche saper voltare lo sguardo su tutto il resto, mettersi in gioco e guardare a quello che succede attorno, se si vuole capire cosa sta accadendo. Altrimenti l’atteggiamento diventa ancora una volta consolatorio o molto chiuso.
Dopo la pedagogia e la politica, c’è il tema della partecipazione. C’è una tendenza da un po’ di tempo a costruire progetti teatrali con le persone, siano bambini, anziani o disabili, a mettere insomma in scena il pubblico.
Il teatro in qualche modo lo ha sempre fatto. Adesso è diventato effettivamente un fenomeno molto presente, in Italia e in Europa. Le motivazioni sono tante e differenti. Sicuramente certi dispositivi di “partecipazione” assumono in Italia caratteristiche molto diverse rispetto a quelle di altri paesi come la Francia, la Germania, il Belgio…
Bisognerebbe affrontare la questione su diversi livelli: politico, economico, sociale, artistico… è senz’altro una questione complessa. In maniera anche molto disordinata si può dire che la vita quotidiana è cambiata molto in questi ultimi anni con le nuove tecnologie. Un’idea di sharing è ormai collegata a ogni cosa, la più scema così come la più delicata. “Condividere” è la parola d’ordine per immaginarsi un mondo migliore, ma è anche la gallina dalle uova d’ora per il marketing (oltre che per la politica, per il consenso che genera). Il campo semantico della condivisione include partecipazione, interazione, coinvolgimento del pubblico eccetera eccetera. Tutto questo ha a che fare in Italia con la colonizzazione dell’immaginario da parte della televisione e con un narcisismo di massa che ha preso forme su cui molto è stato detto.
Allo stesso tempo la partecipazione è un modo per confrontarsi con il teatro cercando di mettere in discussione in altro modo la questione della rappresentazione. È un modo per dare un peso specifico a un’arte che soffre un deficit di credibilità. Coinvolgere non professionisti sulla scena, o riferirsi direttamente al pubblico, può diventare un modo per esplorare dei margini nuovi ed estremamente umani (e anche il cinema a suo modo lo continua a fare). Quindi su questa questione bisogna andare a fondo, vedere caso per caso quali sono le intenzioni, il progetto, il talento dell’artista e i presupposti da cui si parte. Solo in questa maniera credo si possa sciogliere il groviglio, e distinguere il grande fratello dall’ultimo lavoro di Teatro Sotterraneo o di Virgilio Sieni.
Una breve battuta per chiudere. Dei grandi del teatro chi vorresti vedere oggi all’opera in Italia per raccontarla?
Forse Carmelo Bene, che non ho mai visto dal vivo. Riuscì a resistere a Craxi e a Maurizio Costanzo, oggi dovrebbe vedersela con Berlusconi e Maria De Filippi! Ha saputo usare genialmente tutte le tecnologie in suo possesso, amando e odiando il teatro. Chissà se rinascesse oggi cosa farebbe…