di Renato Parma
Puoi indossare elmetto, un pastrano e imbracciare un vecchio fucile del primo conflitto mondiale. Sullo sfondo è dipinto un paesaggio di guerra. In posa, tra l’inevitabile ilarità imposta da un cappotto o troppo grande o troppo piccolo, da un casco che sulla testa dei bambini fatalmente scivola, ci si lascia fotografare da parenti e amici come i soldati di un conflitto preistorico. Chi è da solo, può, con un colpo di genio forse involontario, fare coincidere la catastrofe della guerra e la propria quotidianità, scattando un bel selfie.
È con questo goffo travestimento che chiunque può giocare alla prima guerra mondiale nella frequentatissima mostra che l’Imperial War Museum di Londra – il museo nato subito dopo la fine della Grande guerra – ha organizzato quest’anno.
La scena londinese è probabilmente un sintomo esemplare per condensare il tipo di gestione pressoché unanime con cui le istituzioni politico-culturali europee hanno amministrato il centenario della guerra. La sacralizzazione del tempo che fu, l’ossessiva elencazione dello spaventoso numero delle vittime, ha scatenato una sorta di banalizzazione della carneficina, come se fosse necessario consegnarla a un altro universo spazio-temporale. Come se l’orrore di cento anni fa non avesse più nulla da dirci, se non farci ridere dopo averci traumatizzato.
Insomma, al solito, si fa spettacolo di fronte alla catastrofe.
Eppure, il centenario poteva essere l’occasione per fare i conti con l’imprevedibile attualità della catastrofe della Grande guerra. L’evento che fonda il Novecento imponendo al secolo uno dei suoi tratti più sinistri: il divenire quotidiano della catastrofe; l’essere-in-trincea come condizione normale.
La prima guerra mondiale traccia un’incrinatura della storia che porta la storia fuori dai cardini. Non si tratta certo di un evento storico assoluto (non esistono fenomeni del genere) ma, allo stesso tempo, costituisce il modello di ciò che il sapere degli storici più approfondisce, meno afferra.
Come rammemorare il senso di una catastrofe inaudita, quando tra fanfare, trombe, i calzoni colorati e i guanti bianchi degli ufficiali, nel pieno di una serie di errori militari incredibili, una generazione fu inviata al massacro? Come essere all’altezza di un vero e proprio buco nero della storia? Come non tradire il silenzio che si impone di fronte a una carneficina insensata?
C’è un’inevitabile imbarazzo, una sorta d’indecisione di fronte a un eccidio che più si studia e più diventa indecifrabile. Nella seconda guerra mondiale la lotta contro il nazi-fascismo potrebbe spiegare e probabilmente giustificare qualsiasi orrore. Ma nel ’14 la sensazione è di trovarsi innanzitutto e semplicemente di fronte al generalizzato disprezzo di chi comanda nei confronti di un popolo. Un popolo, paradossalmente, nella guerra del nazionalismo totale, senza patria, mandato, ostinatamente e senza pietà, al macello.
Che fare di fronte all’irrappresentabile senza cedere all’elegia del macabro? Chi intende parlare della grande Guerra, in particolare se non è uno storico, se, cioè, la Grande guerra non costituisce soltanto un oggetto di studio, ma il nome di un problema, porta una responsabilità difficilmente enunciabile. È come se anche noi, per un curioso corto-circuito della storia, del tempo, delle generazioni, avessimo una qualche responsabilità – non morale ma oserei dire ontologica – verso quel massacro.
Come ci ha lasciato vedere Walter Benjamin già negli anni Trenta, la Grande guerra è l’evento che esclude la possibilità di qualsiasi racconto, dal momento che la fa finita con il valore di qualsiasi esperienza che sia possibile restituire e narrare. Chi torna dal fronte non ha nulla da raccontare: l’orrore della guerra industriale non si lascia descrivere. Non è possibile rappresentarla senza mancarne l’abissale violenza (sull’afasia del ritorno dalla guerra è direi quasi indispensabile conoscere il lavoro di Yervant Gianiikian e Angela Ricci Lucchi e in particolare il documentario del 2004, composto con vari materiali di archivio, per lo più inediti, Oh! Uomo)?
Tuttavia è forse possibile prendere le distanze da tutto ciò che fa di questa catastrofe un’opera sulla quale erigere celebrazioni, facili moralismi, retoriche e lirismi. È possibile con un decentramento di un racconto che non racconta quasi niente, sino a sfiorare la propria assenza. Un racconto che evita qualsiasi rappresentazione della guerra ma che, con una sorta di deragliamento continuo, non rinuncia a pensare l’impensabile del conflitto. Se già a ridosso della fine della guerra è chiaro che corrispondere alla sua irrappresentabilità si rivela l’unica maniera per essere fedeli all’abisso della carneficina senza fare della carneficina un esercizio di stile – in questo senso probabilmente l’esempio più grandioso, come ha recentemente dimostrato uno dei più promettenti e riluttanti germanisti italiani, Gianluca Miglino, è la Montagna magica di Thomas Mann – è forse giusto volgere lo sguardo, in occasione dell’anniversario, verso lo stesso tipo d’intenzione ma concepita cento anni dopo.
È ’14 di Jean Echenoz a esplorare questa soglia tra il dicibile e l’indicibile. Un romanzo sottile che sin dal titolo laconico, ’14 (comparso in Francia nel 2012, quindi in tempo per depistare le celebrazioni del conflitto, è uscito recentemente in Italia, grazie a una preziosa traduzione, da Adelphi), con una scrittura, almeno in apparenza, destituita di cura, si fa largo tra le macerie della guerra e si occupa della filigrana più difficile da vedere: la trincea, l’essere-in-trincea, come paradigma della vita quotidiana.
Come concepire nella visione della guerra una sottrazione del racconto? Echenoz si prende lo spazio per annunciare la propria formidabile eterogenesi dei fini:
Ti aggrappi al fucile, al coltello il cui metallo ossidato, reso opaco, scurito dai gas appena sotto il chiarore gelido dei razzi illuminanti, nell’aria impestata dai cavalli decomposti, dalla putrefazione degli uomini uccisi, poi passando a quelli che ancora si reggono a stento nel fango, dall’odore di piscio e di merda, e di sudore, di lerciume e di vomito, per non parlare del dilagante effluvio di rancido, di muffa, di vecchio, mentre in fondo sei all’aria aperta, al fronte. Invece no: l’odore di stantio te lo senti addosso e dentro, all’interno di te, dietro i reticolati di filo spinato dove sono uncinati cadaveri marcescenti e disarticolati che talora i genieri usano per fissare i fili del telefono – compito tutt’altro che facile, sicché i genieri sudano di fatica e di paura, si tolgono il pastrano per lavorare con più agio, lo appendono a un braccio che, sporgendo al suolo scavato, funge dal appendiabito (p. 71).
La macabra descrizione del campo di battaglia si arresta improvvisamente, perché questo ritratto dell’orrore non si può più fare. È interdetta la descrizione, l’indugio stilistico sui corpi devastati. Almeno oggi, dopo un secolo, insistere con queste illustrazioni, con questo esercizio mimetico, vorrebbe dire smarrire qualsiasi responsabilità: «Tutto questo è stato descritto migliaia di volte, e forse non vale la pena di soffermarsi su quest’opera sordida e fetida» (p. 71). Nessuna parabola estetica è ammissibile; nessuna mistica del lurido è accettabile. L’immondizia immonda del mondo non si rappresenta, altrimenti si rischia di redimerla, di promuovere una forma di trascendenza estetica destinata a eludere l’impensabile da pensare.
La catastrofe di ‘14, come spesso accade quando la catastrofe è alle porte, prende avvio da un movimento normale, persino automatico: da una pedalata. Il racconto comincia con la corsa in bicicletta di Anthime tra le colline della Vandea. Una pedalata come tante altre. Persino insignificante. Però è sabato. Un sabato d’agosto: il 1 agosto 1914; il giorno in cui la Francia e la Germania sono ufficialmente mobilitate. Dalla campagna dove Anthime arresta la bicicletta, ascolta le campane del paese; avverte un timbro particolare: è il richiamo alla mobilitazione. Ma è sabato: «Anthime un po’ se l’aspettava ma mai avrebbe immaginato che capitasse di sabato» (p. 13). La rovina è inattesa; l’irruzione della storia si rivela imprevedibile. Sino a un attimo prima è sabato, spensierati pensieri di vita, è un giorno di festa, e seppure non può essere sempre festa, come si può prevedere la catastrofe in un giorno di festa? D’estate?
La prima parte del romanzo di Echenoz è una teoria quasi imperscrutabile della catastrofe: la catastrofe, almeno generalmente, per quanto sia grande, sublime, tragica, totale, apocalittica, non si declina mai al presente. La catastrofe generalmente o è dietro di noi, cioè, riconosciamo che in un gesto remoto è piantata una catastrofe, o, polarmente, ma sempre nella stessa logica, ammettiamo che ci attende, nel futuro. La catastrofe, in altre parole, sta per arrivare: forse domani, ma certo non oggi. La catastrofe, dunque, per quanto possa apparire paradossale, non presenta nulla di veramente catastrofico. Eppure, è qui.
Il paradigma di questa rimozione della catastrofe è la prima guerra mondiale. Più precisamente, l’estate del 1914 è l’archetipo della catastrofe contemporanea. L’estate del ’14, nelle capitali europee, scorre come quelle precedenti: afosa, spensierata, piena di promesse. Nessuno, infatti, può presagire l’arrivo imminente dell’uragano di sangue che si sta per abbattere sul suolo europeo (dei sette milioni di soldati che nell’agosto del ’14 partono per il fronte, nel giro di qualche mese, comunque entro la fine dell’anno, senza contare i feriti, un milione è caduto). La veemenza e l’intensità delle battaglie coglie tutti impreparati e, paradossalmente, disarmati.
Il fratello di Anthime, Charles, è sicuro: la guerra durerà al massimo due settimane.
Come può accadere di essere dentro la catastrofe, abitando il suo ventre, ma non vederla? Lasciare la bicicletta e cambiare, improvvisamente, mezzo di trasporto: prendere un treno, andare al fronte senza percepire l’orrore contro cui si va incontro. Con l’orrore, almeno sino a quando non ti travolge, si possono fare veramente i conti? Non è proprio questa la sua natura catastrofica? La sua imprevedibilità; la sua plateale mancanza di narcisismo?
Anche chi resta in Vandea, come Blanche, la donna di Charles, o alcuni giovanissimi non ancora arruolabili, guardano altrove; sono convinti «che il conflitto sarà breve, lo ignorano e non voglio preoccuparsi» (p. 25).
Chi studia le vicende della Grande guerra e, in particolare, quanto accade tra il luglio e le prime settimane di agosto del 1914, al primo impatto, generalmente, è sconcertato sia di fronte alla disinvoltura dei politici, che con le loro decisioni preparano la guerra, sia quando scopre la diffusa impreparazione e incompetenza dei generali, dei comandanti, dei capitani maggiori, che organizzano le strategie militari. Impiegano i loro uomini non come soldati ma come topi; allestendo tattiche suicide, pianificano con non curanza il massacro. ‘14 evoca tutto ciò senza insistere nella mera denuncia di errori di natura militare riuscendo, invece, a mostrare l’anima più profonda di qualsiasi potere: la sua criminale, grottesca stupidità. Echenoz condensa l’intollerabile follia del potere in un breve capoverso. Siamo all’inizio dell’agosto ‘14: «Tornerete tutti a casa, ha promesso in particolare il capitano Vayssière tentando con tutte le sue forze di rendere stentorea la voce. Sì, torneremo tutti in Vandea. Ma c’è un punto essenziale. Se ci sono uomini che muoiono in guerra, è per mancanza di igiene. Non sono i proiettili a uccidere, è la sporcizia a essere letale, ed è la prima cosa che dovete combattere. Lavatevi, quindi, rasatevi, pettinatevi, e non avrete nulla da temere» (p. 30).
Naturalmente la morte giunge repentina e non perché le orecchie sono sudicie: Charles si schianta al suolo in aeroplano. La scena della sua fine è un memorabile gesto di Echenoz che attua un scarto, una presa di distanza dall’opera morte, dedicando qualche riga al grazioso villaggio – sembrano persino delle scarne informazione turistiche – dove si schianta l’aereo in cui viaggia il fratello di Anthime.
La guerra non dura quindici giorni: l’inverno, i massacri, gli attacchi allo scoperto impongono di nascondersi, di prendere la via del sottosuolo. La guerra cambia pelle. I soldati scavano e iniziano a occupare le trincee. A penetrare i terreni. A essere sepolti non solo da morti. Domina adesso la noia, l’agonia, la paura, il silenzio. Ma per tutto questo, c’è poco da dire; c’è poco da raccontare che non si sappia già.
Anche ad Anthime tocca la sua granata. Una scheggia ritardataria, postuma. Un pezzo emerso dal nulla; «venuta da chissà dove». La Grande guerra è un conflitto senza nemici visibili; una battaglia tra spettri; una granata, un rumore assordante. La guerra industriale impone, dopo l’estate del ’14, di evitare il corpo a corpo; di delegare alle macchine l’organizzazione della battaglia. Nelle trincee, allora, la morte proviene dal nulla. La scomparsa fisica del nemico genera una nevrosi diffusa; la sua presenza spettrale lo colloca potenzialmente dappertutto: sotto le trincee a scavare tunnel, in cielo; invisibile, a cento metri di distanza. L’evaporazione fisica dell’altro smaterializza la paura; la paura diventa angoscia, terrore; semplicemente paura di morire.
Per Anthime la granata non dispone la morte, ma la rescissione del braccio destro. Resta quello sinistro. Come a dire: dopo la guerra restiamo figure sinistre.
Anthime lascia il fronte da invalido: potrà abbandonare l’inferno e vivere degnamente. È mutilato, ma l’amputazione è un colpo della (di) grazia: è il lasciapassare per la sopravvivenza. L’assenza del braccio destro diventa la sua vita. La perdita della mano che generalmente preme il grilletto, lancia la granata, la sua assenza, garantisce la presenza; assicura la vita. L’assenza è una traccia; forse questa miseria fisica non è veramente una mancanza.
Tornato alla vita civile, Anthime si adatta a convivere con la realtà della sua assenza; monco di un mondo che non potrà più tornare. Dove gli uomini o sono morti o sono deformati nello spirito e nel corpo.
Il braccio che manca è più presente di quello presente. È una traccia invisibile; il segno incorporeo che non si può rimuovere dell’opera della distruzione; la piaga, la piega di ciò che manca; dell’infondatezza di una guerra assurda, la Grande guerra. Un organo senza corpo, spettrale, che quasi assorbe, nella privazione, la vita intera. L’organo, dunque, soltanto se non si vede, diventa la vita; la vita che Anthime non vivrà: consegnato a sopravvivere alla propria fine; postumo nei confronti della propria amputazione.
Nell’opera della violenza, però, abita una differenza; uno spettro. Uno spettro come quello di cui ha parlato Derrida e prima di lui qualcun altro: lo spettro che non si fa opera, ma sottrazione dall’opera della morte. Anthime, a Parigi per affari, mentre la guerra non è ancora terminata, incontra un gruppo di soldati che cantano. Cantano anche l’Internazionale: «Il suo volto non ha tradito alcuna emozione, il corpo è rimasto immobile, ma ha alzato per solidarietà il pugno destro, anche se nessuno l’ha visto compiere il gesto» (p. 110).
’14 è un racconto sull’impossibilità del racconto; sull’ignominia di qualsiasi celebrazione della carneficina dei corpi. Per questo motivo è un libro sulla resistenza, sul prendere congedo, sul rifiuto: meglio darsela a gambe oppure, come fa un soldato in ’14, meglio farla finita da soli. ’14, con digressioni inattese, dimesse, fornendo come dei dispacci sulla vita di Anthime, prende congedo dall’orrore. È in questa maniera quasi defilata che veniamo a sapere che, ritornato dal fronte, Anthime diventa il padre di Juliette; la figlia del fratello Charles, concepita poco prima della partenza per il fronte. Anthime: un padre che non è un padre; un padre incompiuto, per una generazione senza padri. Un padre per dei «nipoti non nati» come scriveva Trakl prima di farsi fuori con una dose massiccia di cocaina nel novembre del 1914.