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Ho ucciso paranoia: Don DeLillo e il terrorismo

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Questo pezzo è apparso su Blow up a settembre 2013.

di Luca Mirarchi 

Se dovessimo scegliere due punti focali, due singoli termini per orientarci nella galassia di Don DeLillo – forse – questi due termini sarebbero Arte e Terrore. Proveremo a servircene per analizzare Mao II (1991) e L’uomo che cade (2007), due romanzi che si rispecchiano l’uno nell’altro. L’uomo che cade è la profezia di Mao II che giunge a compimento, ed è una profezia di sconfitta: la sconfitta dello Scrittore soppiantato dal Terrorista nell’immaginario (mediatico) condiviso. «C’è un curioso nodo che lega romanzieri e terroristi. Anni fa credevo ancora che fosse possibile per un romanziere alterare la vita interiore della cultura. Adesso si sono impadroniti di quel territorio i fabbricanti di bombe e i terroristi. (…) Il pericolo che essi rappresentano è pari alla nostra incapacità di essere pericolosi. Ormai fanno delle vere e proprie incursioni nella coscienza umana. Era quanto solevano fare gli scrittori prima di essere mercificati». Sono alcune riflessioni di Bill Gray, il protagonista di Mao II – uno scrittore in auto-esilio come J.D. Salinger – nascosto in una stanza da vent’anni per completare il suo terzo libro; chiuso in una stanza come un terrorista che cova il suo piano di morte; prigioniero come il poeta sequestrato a Beirut da un gruppo maoista, per il quale Gray accetterà di esporsi rompendo così l’isolamento.

«Non penso che avrei potuto scrivere i miei libri in un mondo precedente all’assassinio di J.F. Kennedy», ha dichiarato in un’intervista DeLillo. È stato il cantore dell’America che ha perduto la l’innocenza (Libra), l’iconoclasta che demolisce i suoi simboli vuoti (la pillola contro la paura della morte in Rumore bianco), l’indagatore di complotti internazionali (I nomi), l’autore di dissertazioni sulla dietrologia (Underworld): la tensione che riverbera dalla sua prosa, visionaria ma controllata, prende le mosse da una paura trascendente, da un senso di minaccia sul punto di deflagrare, da un’atmosfera che prefigura l’apocalisse dell’Occidente. Finché l’America non si scopre vulnerabile. Finché non arriva l’11 settembre 2001, quando due aerei di linea dirottati penetrano nelle Twin Towers – nel cuore di New York – facendole crollare una dopo l’altra. Soffermiamoci su quest’ultima frase – avete notato quant’è superflua? – se avessimo scritto: «Finché non arriva l’11 settembre» – sarebbe stata la stesa cosa: tutti avete visto quella sequenza, è impressa a fuoco nella vostra mente. L’avete vista e rivista attraverso infinite ripetizioni in TV.

Don DeLillo, scrive Marco Belpoliti in Crolli (2005), ribalta la prospettiva di Walter Benjamin: la riproducibilità tecnica non uccide l’aura dell’opera d’arte quanto piuttosto l’opera stessa – la sua aura, invece, è l’unica cosa che resta («è la ripetizione a rendere intangibile l’oggetto, a farlo diventare immateriale» – come avviene all’icona di Mao nelle serigrafie di Andy Warhol). Per DeLillo, «Mao II vuol dire questo. Siamo fuori dalla storia e dentro la ripetizione, la fotografia, la reiterazione di massa, l’obliterazione delle distinzioni, di ogni differenza». Quanto a L’uomo che cade, il romanzo che esplora i postumi dell’11 settembre nell’intimità di una famiglia divisa, deve il nome alla performance artistica di un personaggio interno al testo, che si appende a testa in giù in varie parti di New York, richiamando alla memoria le persone che si erano buttate dalle Due Torri. Ma stavolta si tratta solo di una pallida imitazione della “performance” compiuta dagli attentatori (che Karlheinz Stockhausen arriverà a definire artistica, simbolizzando il Sublime nella distruzione). I terroristi si sono sostituiti agli scrittori, hanno creato un’altra narrazione storica. La realtà ha superato la finzione, la realtà è morta nell’ossessiva ripetizione mediatica della sequenza dell’attentato. Se tutto è reale, niente lo è davvero.

«Nel “non essere” da cui il terrorista proviene, e di cui ci minaccia, è inscritta l’unica fessurazione possibile (attualmente, purtroppo) di una realtà ormai del tutto saturata dall’immaginario» (Daniele Giglioli, All’ordine del giorno è il terrore). L’uomo che cade è il tentativo di ricucire con le parole il tessuto lacerato della realtà, lo schermo azzurro di quel cielo violato – come in una tela di Fontana – dalle traiettorie anomale dei due aerei. L’uomo che cade è letteratura del dopo: «Nell’aria c’era ancora il boato, il tuono ritorto del crollo», «Il mondo, i segni di riconoscimento più elementari, si stavano allontanando. (…) Era qualcosa che apparteneva ad un altro paesaggio. (…) La verità era condannata a un lento e inevitabile declino». Il narratore della paranoia ha le armi spuntate, i totem sono caduti, il mistero disvelato (negli Stati Uniti, nel 2007, non c’è spazio per ipotesi complottiste, la ferita è ancora troppo fresca). DeLillo “sbaglia” il libro che non poteva non scrivere. Del resto, il suo libro sull’11 settembre l’aveva già scritto. Era Mao II, era il 1991.


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